Piena di grazia: La Varia, tra sacro e profano – Intervista esclusiva alla regista Andree Lucini - The Wom (2024)

Nella suggestiva cornice di Palmi, Calabria, durante l'antica festa della Varia, il film documentario Piena di grazia di Andree Lucini segue tre giovani protagoniste in lizza per il ruolo sacro dell'Animella, esplorando i delicati equilibri tra tradizione religiosa, pressione sociale e identità femminile in un racconto che oscilla tra sacro e profano.

Nell'articolo:

  • Intervista esclusiva ad Andree Lucini
  • Piena di grazia: Le foto del film

Andree Lucini, ventisettenne regista romana, porta alla Festa del Cinema di Roma il suo primo film: Piena di grazia, prodotto da Mompracem e distribuito da Nexo. Il lungometraggio ci conduce nella città di Palmi, in Calabria, durante la festa della Varia, occasione per cui una bambina viene scelta per salire su un carro sacro alto diciassette metri per rappresentare l'Assunzione della Madonna.

Andree Lucini nel film Piena di grazia segue tre bambine in competizione per il ruolo, esplorando il contrasto tra sacro e profano. Nicole, Giada e Mariateresa hanno undici anni e sognano di essere scelte come l'Animella durante la festa della Varia di Palmi, antica tradizione religiosa e popolare. Profondamente simbolico, il rito prevede che una bambina rappresenti la Madonna Assunta in Cielo salendo su un carro sacro imponente. Tuttavia, per essere scelta, la bambina deve soddisfare precisi canoni estetici e morali: avere i capelli lunghi, lisci e neri, la pelle scura ma non troppo, ed essere coraggiosa e graziosa.

Attraverso gli occhi delle tre protagoniste, Andree Lucini esplora tematiche profonde come l'importanza dell'apparenza, il timore di non essere all'altezza e il desiderio di emergere, indagando con sguardo lucido anche il rapporto complesso tra il sacro e il profano, con la festa religiosa che si intreccia alla competizione e all'identità femminile.

Andree Lucini descrive il processo di creazione del film Piena di grazia come una sfida nel mantenere un approccio neutro e senza giudizio. Attraverso una narrazione visiva che oscilla tra il realismo e la fiaba, la regista si immerge nella tradizione della Varia, osservando con rispetto le dinamiche sociali e religiose che definiscono Palmi. La sua esplorazione è anche una riflessione personale sulla condizione femminile all'interno di contesti religiosi.

Andree Lucini esprime il suo desiderio di raccontare una storia estetica, dove il contrasto tra il sacro e il profano emerge in modo organico attraverso le immagini. La decisione di raccontare la festa della Varia come una sorta di fiaba visiva è accompagnata da una precisa ricerca estetica, evidenziata dalle scelte fotografiche di Claudio Cascavilla, dal montaggio delicato di Ginevra Iuorio e dalle musiche di Pivio e Aldo De Scalzi.

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Intervista esclusiva ad Andree Lucini

“Lavoro da tempo con i fratelli Manetti, che sono di Palmi. Devo a Desirée, figlia di Marco nonché co-sceneggiatrice e produttrice (con i fratelli Manetti e Pier Giorgio Bellocchio, ndr) di Piena di grazia, l'essere venuta a conoscenza del rito della Varia”, risponde Andree Lucini quando le si chiede come sia venuta a conoscenza della processione al centro del suo film e di tutto l’universo che le ruota intorno.

“La scorsa estate mi ha mandato la foto di una processione in un altro posto che, seppur molto più piccola rispetto a quella di Palmi, mi ha colpita. Di fronte al mio stupore, ha risposto inviandomi un’immagine della Varia. Non ho avuto alcun dubbio sin da subito sul fatto che volessi vedere in presenza ciò che accade. Il caso ha voluto poi che proprio lo scorso anno si ritornasse dopo cinque anni a riprendere il rito: poteva essere il soggetto per un film”.

“Sono partita poi per la Calabria per prender parte alle riprese di US Palmese, il nuovo film dei fratelli Manetti, proprio a Palmi” continua Andree Lucini nel ripercorrere le tappe che l’hanno portata a Piena di grazia. “Ne ho approfittato per fare dei sopralluoghi e per conoscere gente. Ed è stato lì che avevo tra le mani il materiale per un documentario e non per un’opera di finzione: alcuni dettagli e alcune situazioni erano impossibili quasi da riprodurre”.

Hai faticato nell’approcciare chi poi è finito al centro del tuo racconto? È stato facile convincere le persone a raccontarsi senza temere il giudizio degli altri?

No. Mi sono subito dovuta confrontare con quello che sembra essere un cliché ma che invece è realtà: in Calabria c’è una forte tendenza a nascondere e a non raccontare ciò che riguarda la terra proprio per paura di essere giudicati. In particolar modo, la religione e le sue tradizioni vengono preservate da occhi e commenti indiscreti. È stato quindi difficile tirar fuori delle verità ma, alla fine, credo che mi abbia aiutato l’essere donna, soprattutto con le tre bambine al centro del mio racconto.

Io e Desirée siamo due ragazze giovani e, in qualche modo, le madri si sono fidate di noi: non penso sarebbe successa la stessa cosa se dall’altro lato avessero trovato un cinquantenne, un giornalista o qualcuno con atteggiamento critico nei loro confronti. Il nostro obiettivo non era quello di portare a casa un’inchiesta ma semplicemente di osservare sospendendo ogni giudizio.

Le protagoniste al centro del racconto sono tre bambine di undici anni: Nicole, Giada e Mariateresa. Nell’osservarle, hai potuto percepire se avessero piena coscienza e consapevolezza del rito religioso o se lo vivessero semplicemente come un concorso di bellezza teso a stabilire chi era la “migliore”?

Non so stabilire quanto loro fossero religiose ma di certo la convinzione che a vincere sia la più carina o la più graziosa è forte. Chiaramente, sanno qual è il compito che aspetta la vincitrice: deve rappresentare la Madonna e ha un peso enorme sulle spalle, con conseguenze che spesso traslano la realtà e diventano “metafisiche”.

C’è anche chi, appartenente a famiglie più religiose di altre, nell’essere stata “animella” racconta l’esperienza in maniera estatica: “potevo finalmente fare i miracoli”. Lo status di “animella” le accompagnerà, comunque, per tutta la vita al pari di un onore, sentendosi appellare in quel modo anche quando camminano per le strade, che abbiano 12 o 80 anni.

In un certo senso, la figura dell’Animella è paragonabile a quella dell’influencer: si ci preoccupa dell’apparenza, si ha bisogno di comportarsi in un certo modo, si deve sempre essere all’altezza della situazione e non si deve tradire la fiducia dei “fedeli” mostrandosi sempre “piena di grazia”. Dopotutto, sono i social media la nuova religione.

Il paragone non è fuori contesto, anzi. La figura dell’influencer è al centro di un progetto a cui sto lavorando per offrirne un’analisi da un punto di vista femminile. Il tema mi è dunque caro e credo che il punto in comune tra le due figure sia il cosa si è disposti a fare pur di raggiungere qualcosa. Fino a che punto ci si può spingere è la domanda che si cela dietro, senza alcuna critica negativa nel porla. E le “animelle” sono disposte persino a rimanere sospese a metri d’altezza pur di raggiungere quello status.

Non nascondo che, al di là della sospensione del mio giudizio, ho faticato parecchio da donna a comprendere moltissime cose. Le “animelle” sono sempre delle bambine che crescono con una forte presenza della religione nella loro vita: da adolescenti, magari non considerano nemmeno un obbligo farsi il segno della croce alle 3 del pomeriggio, l’orario della morte di Gesù, ma cosa accadrà quando, una volta cresciute, cominceranno a vedere i dogma legati alla figura femminile o i riti come una costrizione?

Da bambine, non ci pensano. Anzi, si sentono come protette dalla Madonna: il “Non devi avere paura” che viene loro detto da tutti diventa quasi un mantra. Senza dimenticare il peso che gioca l’acclamazione popolare: chi viene eletta “animella” in alcuni casi sviluppa quasi un atteggiamento da leader a cui piace a stare al centro dell’attenzione, facendo sì che il confine tra religione e spettacolo sia labilissimo. Nel mio film, Piena di grazia, c’è una sequenza in cui l’“animella” in carica balla latino-americano per la messa in scena legata alla processione, sacro e profano al tempo stesso.

Colpisce come qualcuno, una donna nello specifico, asserisca che a undici anni una ragazza possa ricoprire il ruolo di “animella” mentre a quattordici anni non possa farlo. Cosa cambia, secondo te?

Di mezzo, come spesso accade nelle religioni, c’è la sviluppo fisico da condannare. La figura della Madonna si ricollega sempre all’infanzia e alla purezza che la connota. Una quattordicenne, con il suo sviluppo, potrebbe avere anche una vita sessuale, qualcosa che non si sposa con ciò che la nostra religione ma anche quella di tante altre culture detta.

Ma non c’è una sorta di punizione del corpo femminile, un sacrificio della femminilità stessa?

Assolutamente sì. Ma ciò che dice la signora in questione connota anche un altro tema: l’oggi e la contemporaneità. Sono le ragazze di oggi che a 14 anni non possono essere “animelle” mentre quelle di vent’anni fa potevano perché più pudiche, secondo la sua visione. Dimenticando però che in passato a quattordici anni spesso erano già madri…

Sospendere il giudizio non è mai facile. Quanto del tuo pensiero hai dovuto mettere da parte?

Parecchio. Ma non l’ho mai vissuta con rabbia, tranne qualche piccolo caso. C’è ad esempio un momento che non ho volutamente inserito nel montaggio finale in cui non ce l’ho fatta a mettere da parte il mio pensiero critico: nella discussione con un vescovo, questi dal nulla cominciava a parlare di utero in affitto dall’alto della sua posizione e accompagnato dalla sua croce sul petto. L’ho trovato anacronistico e fuori luogo: vi ho intravisto la figura di chi, con il potere dato dalla sua posizione, elargisce pensieri e modelli di comportamento.

Per il resto, ho cercato di non giudicare nient’altro provando a sposare l’ottica di chi stava parlando. Forse ho anche finto di credere più di quanto faccia ma è stato un escamotage che mi ha aiutato a guadagnarmi la fiducia di chi stavo osservando. Ma non l’ho fatto a cuor leggero. Mi sono chiesta quale fosse il limite tra sfruttamento e comprensione e mi sono data una risposta: ero anch’io lì per comprendere sollevando domande e questioni che ho anch’io bisogno di risolvere.

Ho anche sollevato dei dubbi durante le riprese stesse: ho ad esempio sentito dire da un prete alle bambine che un giorno anche loro saranno madri come la Madonna, dando per scontato che abbiano già deciso di esserlo. Allo stesso prete ho chiesto come mai si scegliessero bambine per rappresentare l’assunzione di Maria in cielo quando questa al momento della morte avesse all’incirca sessant’anni. La risposta che ho avuto è stata quasi senza senso: “Certo. E, quindi, invocala”. Ho capito che ci saranno sempre domande che non hanno risposta.

Sono rimasta con i miei dubbi: perché una ragazzina che non ha ancora il ciclo è più pura di una che ce l’ha? Ma non è il ciclo stesso sinonima di vita dato che indica che si è pronti a diventare madri? La condanna del ciclo è un’assurdità e rimanda a tutti gli aspetti esoterici legati alle mestruazioni o al concetto arcaico della sofferenza da sopportare.

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Piena di grazia è il tuo film di esordio a 27 anni. Quali sono state le difficoltà incontrate?

Da una parte, sono stata molto fortunata perché sono cresciuta artisticamente all’interno del mondo dei fratelli Manetti e della loro famiglia, un ambiente super protetto in cui essere donna non rappresenta un problema: non mi sono mai sentita screditata e non ho mai avvertito pregiudizi nei miei confronti. È grazie a loro che ho potuto anche affermare la mia personalità e che ho imparato qualcosa a cui tengo molto: il lavorare con le persone che voglio e scelgo io.

Dall’altro lato, però, essere una giovane donna in un’industria cinematografica come quella italiana in cui si è giovani anche a cinquant’anni è un bel problema. A 27 anni ti senti rispondere che di tempo a disposizione ancora ne hai ma il mio tempo è adesso: perché devo aspettare? Di mio, ho anche la sfortuna di sembrare molto più piccola della mia stessa età ma non demordo: la mia personalità prima di tutto.

Forse è il motivo per cui ho scelto di lavorare con il documentario è la possibilità di arrivare a un’infinità di persone senza aspettare che arrivi il grande budget. Per ottenere un particolare effetto per le immagini di Piena di grazia ho messo davanti all’obiettivo una calza comprata in un negozio cinese con pochi spiccioli anziché una Dior!

Il tuo cognome è Lucini, come Luca, famoso regista.

Ma non c’è alcun legame di parentela. L’assurdità è anche mio padre si chiama Luca ma non ho alcun parente che lavora nel cinema… nonostante mio nonno materno si chiamasse Francesco Maselli, non era neanche lui il famoso regista (ride, ndr).

Da dove è nata la tua esigenza di raccontare per immagini?

Penso sia innata: ho sempre scritto tanto. Tutti i muri della mia stanza da piccola erano tappezzati da collage realizzati con frasi che, prese da giornali o libri o scritte da me, venivano associate a immagini che mi colpivano, una sorta di montaggio ante litteram. Mi ha sempre interessata il raccontare qualcosa attraverso l’associazione di immagini che messe insieme assumevano nuovo significato.

Non so bene poi come sono arrivata al cinema: sì, ho sempre visto tanti film ma dopo il liceo ho sentito un richiamo particolare per come si realizzassero o facessero. Quasi ironicamente, mi sono trasferita da Roma a Milano per studiare in una scuola di cinema. Non ho mai capito la mia scelta (forse perché volevo andare lontano da casa) ma di sicuro ho capito che quello che si insegnava lì non era cinema come lo intendo io. Sono dunque rientrata a Roma e mi sono iscritta all’Università…

Parafrasando il titolo del tuo film, credo di essere una regista “piena di grazia”?

Lo spero. Anche perché con questo film abbiamo cercato di trattare tutte le persone coinvolte con estrema delicatezza e rispetto. Una volontà che si riflette esteticamente anche nelle scelte fatte con il direttore della fotografia Claudio Cascavilla: proviamo a non essere mai giudicanti per seguire sempre quello che accade. Ci siamo approcciati alla storia delle “animelle” con molto umiltà, senza la spocchia di quei registi borghesissimi che pretendono di raccontare situazioni e realtà che non conoscono solo perché reputano che è molto più facile fare anziché astenersi.

Il cinema per me è invece un modo per entrare in profondità e non per regalare facili moralismi. In quel caso, preferisco astenermi e rimanere in silenzio.

Quante volte, invece, ti sei astenuta in ambito professionale dal dire ciò che pensavi?

Tantissime. A cominciare da tutte quelle in cui avrei voluto dire che “mi vesto come mi pare” sul set. Mi sono sentita talvolta giudicata da chi lavorava con me per un paio di calze, come se fosse l’abito a dar credito alle mie competenze… qualunque esso sia, rimango sempre una ragazza molto determinata che ha voglia di raccontare storie dal punto di vista delle donne, sdoganando temi, questioni e argomenti che seppur sembrino inglobati nelle nostre società, rimangono ancora contorniati da pregiudizi e stereotipi.

Fortunatamente, mia madre mi ha insegnato a pensare sempre e solo con la mia testa sin da quando ero piccolissima: ogni realtà ha infinite sfumature, basta cercarne la poesia al di là della superficie e del giudizio facile.

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